In ingegneria meccanica il filtro antiparticolato FAP (DPF, dall’inglese Diesel Particulate Filter) è un dispositivo delle automobili a motori diesel (ma non solo) per abbattere le emissioni inquinanti da polveri sottili. Serve a limitare le emissioni di PM10 soprattutto dei motori diesel. Attualmente è la migliore tecnologia disponibile a questo scopo e ciò lo rende importante, ma anche oggetto di controversie sulla sua efficacia. Ma partiamo dall’inizio.
L’adozione del FAP filtro antiparticolato risale agli inizi del XXI secolo e si diffuse molto velocemente fra tutti i costruttori, specialmente in Europa dove i motori Diesel erano largamente distribuiti. Il gruppo PSA, nel 2000, iniziò ad installare sulle proprie vetture a gasolio un filtro in grado di trattenere le particelle inquinanti presenti nel gas di scarico (PM10); la tecnologia, coperta da brevetto, sfruttava la “cerina” (ossido di cerio) e venne usata per la prima volta su una Peugeot 607 con la denominazione commerciale FAP (in Italia erroneamente utilizzata per identificare tutti i DPF).
Tale soluzione venne subito proposta anche dalle altre maggiori case automobilistiche, le quali proposero molti sistemi analoghi a quello PSA, ma tutti aventi il medesimo risultato: abbattere le sostanze inquinanti dei gas di scarico dei motori Diesel.
Questi sistemi vennero internazionalmente identificati come DPF, Diesel Particulate Filter, e pur tutti basandosi su brevetti diversi avevano un funzionamento fra loro estremamente simile. Questa esplosione veloce e globale a livello europeo, che toccò tutti i paesi e tutti i costruttori, creò un vero e proprio impatto mediatico, con critiche e opinioni contrastanti che durano anche fino ai giorni nostri. La tecnologia del DPF ha riscontrato una tale efficacia nell’abbattimento delle emissioni di particolato allo scarico che è stata utilizzata dai ricercatori di settore per sviluppare i filtri antiparticolato anche per le autovetture a benzina, i cosiddetti GPF (Gasoline Particulate Filter).
Il Gruppo Volkswagen e Mercedes hanno adottato GPF, associati ai propulsori benzina ad iniezione diretta. Altra tendenza degli ultimi anni è quella di avvicinare il filtro antiparticolato al motore, invece che posizionarlo sottoscocca come i primi esemplari, aumentandone così le temperature di esercizio, il tempo di warm up e l’efficienza.
Sebbene ci siano diverse tipologie di filtri in commercio, il funzionamento di base è il medesimo per tutti. Il sistema di scarico raccoglie i gas combusti nel collettore di scarico e poi li convoglia verso la marmitta catalitica, passando per il filtro antiparticolato vero e proprio, procedendo verso il vaso d’espansione, il silenziatore e l’uscita. Un software di diagnosi e gestione monitora continuamente il filtro per assicurare un corretto funzionamento e una corretta manutenzione dello stesso, il filtro in questione è a sua volta abbinato a un precatalizzatore e ha lo scopo di filtrare fisicamente le polveri sottili.
Esistono modelli dotati anche di un terzo elemento: un sistema che aggiunge un additivo al carburante; tuttavia i sistemi più diffusi sono progettati senza questo ulteriore passaggio. L’additivo permette al sistema di ridurre la temperatura necessaria per effettuare il sistema di rigenerazione, ma la maggiore diffusione di sistemi senza additivo ha dimostrato la non reale necessità di questo passaggio ulteriore, che appesantisce il veicolo a causa del serbatoio e del sistema di iniezione e, oltre ad essere meno economico da produrre perché avente più pezzi, costringe il consumatore agli interventi di rabbocco (anche se questi sono davvero occasionali).
Essendo fisicamente un filtro, questo si intasa nel tempo. Alcuni sono concepiti con la filosofia “usa e getta” e quindi vanno regolarmente sostituiti, altri, la maggior parte, invece sono progettati per “rigenerarsi”. Durante questo processo interviene il computer di monitoraggio che effettua una diagnosi del sistema per rilevare il grado di otturazione e, se necessario, avvia la pulizia che si ottiene iniettando una maggiore quantità di carburante al fine di aumentare la temperatura e quindi bruciare il PM10 raccolto.
Il conducente del veicolo, delle volte, viene avvisato con una spia quando è il momento di pulire il filtro intasato e quindi procedere con il viaggio extraurbano, nei mezzi moderni tutto avviene senza particolari segnali, anche in ambito urbano, mentre i primi esemplari tendevano a saturarsi se si percorrevano solo tragitti corti o prettamente urbani. Comunque è sempre consigliabile ogni tanto effettuare medie-lunghe percorrenze per evitare l’otturazione eccessiva del filtro, quindi il danneggiamento irreversibile e la sostituzione forzata.
Esistono dei sistemi professionali, ovvero da effettuare presso autofficina, che permettono di ripulire a fondo il filtro che deve essere pertanto smontato. Questi procedimenti sono eseguiti solitamente con chilometraggi assai elevati.
L’obiettivo principale di questo dispositivo è ovviamente il rispetto dei limiti di emissione Euro 4-5-6 nei diesel ed Euro 6c nei benzina e quindi la diminuzione del PM10 di origine carboniosa emesso dai motori, particolarmente pericoloso in quanto contiene sostanze fortemente tossiche come gli idrocarburi policiclici aromatici.
In base agli studi sperimentali, il DPF ha dimostrato a oggi una notevole efficacia nella cattura del particolato emesso dai motori diesel. In particolare, secondo le misurazioni effettuate dall’Istituto Sperimentale per i Combustibili, le polveri vengono abbattute di 7 volte in massa e di 10000 volte in numero. L’efficacia di cattura del filtro è stata inoltre verificata fino a particelle delle dimensioni di 10 nanometri (quindi anche per parte delle cosiddette nanoparticelle).
Questi studi vengono da altri contestati in quanto le misurazioni non sono state effettuate su tempi abbastanza lunghi e quindi non comprendono la fase di rigenerazione del filtro, che è la più critica.
Infatti, a tal proposito, alcuni studi dell’Agip hanno dimostrato una maggiore produzione di nanopolvere da parte di questo dispositivo durante le fasi di rigenerazione, anche se su livelli non superiori a quelli che si registrano sui veicoli non dotati di DPF. Secondo lo studio dell’Agip le nanoparticelle prodotte dai motori diesel sarebbero prevalentemente volatili (cioè non comprese nel particolato comunemente inteso) e costituite soprattutto di acido solforico e composti organici pesanti, oltre che in gran parte da residui carboniosi. Lo studio evidenzia altresì la quasi completa inefficacia dei comuni metodi di determinazione gravimetrica delle “polveri” (PM10) per la determinazione dell’effettiva quantità delle polveri ultrafini (< 0.1 µm) e nanopolveri (<0.05 µm).
Insomma chi dice che faccia bene, chi dice che faccia peggio, poichè “sminuzza” maggiormante le polveri sottili che vengono poi “aspirate” e si depositano meglio negli alveoli polmonari. Insomma per ora sappiamo con certezza solo una cosa: i filtri antiparticolato sono una realtà per tutte le auto di nuova concezione.
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