Indubbiamente la crisi energetica, in particolar modo petrolifera, che prese il via nei primi anni Settanta fu per il mondo dell’automobile un vero e proprio spartiacque tra due ere, dove è possibile parlare più che in altri momenti di un “prima” e di un “dopo”.
Tale crisi venne generata nel 1973 dallo scoppio della Guerra del Kippur, che vide contrapporsi gli eserciti di Israele e quelli della coalizione Egitto-Siria portando ad un aumento sostanziale del prezzo del greggio a livello mondiale, da parte dei petrolieri arabi determinati a condizionare gli Stati occidentali che appoggiavano Israele; un’iniziativa unilaterale che generò una reazione a catena in grado di produrre gravi ripercussioni su tutto il sistema industriale, produttivo, economico ed energetico. Ma non solo, perché se vogliamo la “crisi dell’automobile” ebbe inizio già dalla seconda metà degli anni Sessanta, in quanto posta sotto la lente di grandi organizzazioni e Stati rispetto ai temi della sicurezza, del traffico e dell’inquinamento ambientale (in particolare le emissioni in città).
In tale contesto l’automobile corse immediatamente ai ripari, rivedendo priorità, visioni e progetti futuri; si capì immediatamente che il presente quanto il futuro, a livello geopolitico e industriale, non sarebbero più stati più gli stessi, alla luce della nascita di nuove coscienze, dinamiche e paradigmi che iniziarono subito ad influenzare negativamente molte produzioni dell’epoca. Insomma, un mix di così tanti elementi che portarono necessariamente l’automobile a reinventarsi, a suon di sperimentazioni alla ricerca di inedite risposte a nuovi problemi.
Fiat risponde con l’ibrido
Nel 1972 la Fiat rispose alle nuove istanze (quelle già precedenti alla crisi petrolifera) con il particolare e ingegnoso progetto sperimentale chiamato Fiat X1/23, piccola vettura cittadina con motorizzazione completamente elettrica in grado di percorrere 70 km con una sessione di ricarica ad una velocità massima di 80 km/h. Ma se questa rimase al momento una sperimentazione in divenire progettata da zero, la stessa Fiat in risposta alla post-crisi petrolifera si lanciò, attraverso quella potente divisione che è il Centro Ricerche Fiat (CRF), nel progetto di una vettura con motorizzazione ibrida (elettrico-benzina) applicabile ad automobili già in produzione. Il modello Fiat 131 Mirafiori lanciato nel 1974 fece da “cavia” ideale, in quanto abbastanza grande da ospitare il sistema e, al tempo stesso modello più recente e di punta del marchio.
Nel 1979 al Salone di Detroit venne presentata la Fiat 131 ibrida in veste di prototipo perfettamente marciante, identica alle altre vetture della linea “Mirafiori”, ma qui contraddistinta da una curiosa livrea pubblicitaria che sottolineava la natura ibrida “50-50” del modello. Nel vano motore troviamo l’intramontabile quattro cilindri da 903 cc depotenziato a 33 CV ed accoppiato ad un motore elettrico da 20 kw: lo schema proposto viene definito “ibrido in parallelo” nel quale il motore a benzina è collegato al differenziale con un rapporto in presa diretta 1:1, senza cambio. Al posto della frizione c’è un convertitore di coppia a cui segue l’albero di trasmissione su cui è calettato il rotore del motore elettrico, quest’ultimo alimentato da 12 batterie da 250 Ampere sistemate nel vano bagagli.
Tecnologia acerba, ma promettente
La soluzione doveva consentire alla vettura di risparmiare carburante riducendo le emissioni in quanto il motore termico girava al minimo (verso il basso), mentre quello elettrico entrava in aiuto per le partenze e fino alla velocità di 50 km/h. L’unità elettrica agiva dunque in maniera inversa rispetto al motore endotermico a benzina, sviluppando una coppia altissima ad un basso numero di giri, che poi decresce alle velocità più alte, momento nel quale entrava in funzione il motore a benzina. In più il motore elettrico recuperava energia in fase di decelerazione e frenata, la stessa energia che sulle vetture a motore tradizionale viene dissipata sotto forma di calore. L’autonomia verificata in ciclo urbano era di circa 140 km mentre il tempo necessario per la ricarica completa delle batterie (la sola rigenerazione non bastava) avveniva circa in un’intera nottata.
Purtroppo dal punto di vista del rendimento, il convertitore di coppia era il punto debole del sistema in quanto assorbiva costantemente il 10% della potenza complessiva del motore a benzina, annullando il risparmio energetico proveniente dal sistema elettrico. A peggiorare le cose il peso aggiuntivo di 175 kg dovuto alle batterie che la penalizzavano soprattutto in fase di accelerazione, dissipando ancora l’energia “risparmiata”; le prestazioni fornite dalla Fiat attestavano uno 0-400 metri il 23 secondi, 0-1000 metri in 42 secondi e velocità massima di 122 km/h (a fronte dei 157 km/h del benzina 1600 cc).
Gli esperti tecnici e gli avanzati computer del CRF segnalarono evidenti possibilità di miglioramento attraverso una ottimizzazione del motore termico e l’adozione di convertitori di coppia senza perdite e dal basso assorbimento, portando ad un risparmio potenziale di carburante del 22% rispetto ad un motore solo benzina e superiore velocità; ma nuovamente cambiarono le priorità e l’assetto aziendale, che fermarono il progetto orientando gli investimenti sul miglioramento delle promettenti motorizzazioni diesel (in termini di riduzione dei consumi), perdendo la possibilità di un moderno primato industriale e strategico.
Autore: Federico Signorelli