Comincia tutto con un modellino, magari un Burago 1:18, con le portiere ed il cofano che si aprono, lo sterzo funzionante, gli specchietti retrovisori in plastica che puntualmente si rompono. È un amore che ti frega fin da piccolo. Cominci a spingere quel piccolo gioiello a quattro ruote per il corridoio di casa, imitando il suono del motore con la bocca, con un ‘brum-brum’ che quando spalanchi diventa ‘meee-pausa-meee’ – hai già capito che i cambi di marcia sono la vera goduria, nella vita – e quando freni fa ‘iiih’. Derapate, incidenti contro la credenza dell’ingresso, il tuo pupazzo preferito che non sta sul sedile di guida neppure se il modellino è quello di una cabrio.
Poi arrivano i poster in camera. Una Countach, una Miura, una Diablo a seconda delle generazioni, ma poco importa. È bella e cattiva, si insinua nei sogni come ogni inizio, come i primi desideri, come i primi baci. Ogni dettaglio ti prende allo stomaco. Le forme, il rumore del motore, la sola idea di potere – magari, un giorno, chissà, se faccio i soldi – mettere le mani sul volante di un modello di Sant’Agata, girare la chiave, infilare la prima e fuggire via in una nuvola di fumo e di cavalli. Perché le Lamborghini, o ‘le Lambo’ più semplicemente, sono un groviglio di sensazioni, più che delle semplici auto. Sono il gene della follia che cova in ciascuno di noi, sono quel bambino di 6 anni che non cresce mai, che resta dentro, nascosto negli angoli più reconditi della nostra immaginazione, ma che viene fuori non appena una creatura col toro sul cofano ci si para davanti.
Chissà se Ferruccio Lamborghini già sapeva tutto questo, se la sentiva quella fitta allo stomaco, quando decise tra il 1962 ed il 1963 di dare vita alla “Società Automobili Ferruccio Lamborghini”. Lui, emiliano visionario e sanguigno, ricco produttore di trattori, prese il coraggio a due mani e si buttò in una nuova avventura, quella delle supercar. La prima fu la 350 GTV, poi semplicemente 350 GT, che fu presentata al Salone dell’Automobile di Torino del novembre 1963, pochi mesi dopo la costruzione della fabbrica di Sant’Agata. Il 12 cilindri a V era figlio del genio di Giotto Bizzarrini – ingegnere ‘rubato’ alla Ferrari – e dei giovanissimi, appena venticinquenni, Giampaolo Dallara e Giampaolo Stanzani. Fu proprio la fantasia, la freschezza di questi due giovani a dare vita a un progetto che avrebbe segnato per sempre la storia delle supercar e del nostro immaginario. Cominciò tutto con un telaio, non tubolare come quello delle rivali Ferrari o Maserati, ma semi-portante in lamiera piegata e saldata. Presentato al Salone di Torino del 1965, questo ‘scheletro’ era ispirato alle vetture da corsa, in particolare alla Ford GT40, che in quegli anni cannibalizzava le avversarie infilando un successo dietro l’altro. L’idea era quella di un’auto da corsa con la targa, il progetto chiamato 400 TP avrebbe montato il 4 litri a 12 cilindri della 400 GT, erede della 350. Ferruccio Lamborghini, quando vide il progetto, lo approvò seduta stante. Nessun tentennamento, non un dubbio. Quell’auto andava fatta.
Sarà che fra grandi ci si capisce, sarà stato il caso, la fortuna, il destino, fatto sta che Nuccio Bertone, non appena vide quel telaio così assurdo per l’epoca, andò dall’irruente emiliano e gli disse “io sono quello che può fare la scarpa per il tuo piede”. Uno sguardo, un cenno e l’accordo era concluso. Ad occuparsi delle forme di quella che è ancora oggi una delle vetture più belle di sempre fu un ‘pischello’ di appena 27 anni, Marcello Gandini. È grazie alle idee innovative, rivoluzionarie, esagerate di tre ragazzi neanche trentenni che è nata la Miura. E alla loro gioventù, alla loro assenza di freni, alla loro immensa fantasia dobbiamo dire grazie. Lavorarono tutti come matti, sette giorni su sette, a ogni ora del giorno e della notte per arrivare preparati all’appuntamento con la Storia: il Salone dell’Automobile di Ginevra del febbraio 1966. La kermesse svizzera incoronò definitivamente quel capolavoro a quattro ruote che tutti conoscono, amano e desiderano. Il resto si sa: gli ordini arrivarono in numeri decisamente oltre le aspettative, l’auto diventò immediatamente oggetto di culto e ancora oggi l’entusiasmo intorno a questo modello ne fa uno dei pezzi più ricercati dai collezionisti e più appesi al muro della cameretta dai ragazzi.
Noi siamo andati a cercare lo spirito dei mitici anni ’60 in quel di Forte dei Marmi, località balneare simbolo dell’Italia del boom, a bordo di una degna erede della Miura: la Gallardo LP 550-2. Abbiamo scelto una Lambo a trazione posteriore perché incarna l’anima più pura, selvaggia, violenta e indomabile delle supercar. Il suo rombo ha riempito la Pianura Padana, le valli toscane, le strette strade di Pisa e i lungomare della Versilia, per poi dirigersi verso Roma. La prossima settimana il resconto completo del viaggio.