“Decenni di problemi strutturali” nel Gruppo Volkswagen: a dirlo (al giornale domenicale Bild am Sonntag) è stato il CEO di Wolfsburg Oliver Blume. Insomma, ieri la zavorra delle inefficienze era nascosta dal successo delle vendite del primo costruttore europeo; oggi, con le immatricolazioni a picco ovunque e la domanda in calo in Cina, col flop delle auto elettriche dell’azienda e la flessione delle consegne delle termiche, quei problemi si fanno sentire parecchio. Il risultato, stando al numero uno dell’azienda, è semplice: “I nostri costi in Germania devono essere ridotti in modo massiccio”.
È la prima volta che Blume si sbilancia in tale senso, e questa mossa deve far riflettere. In passato, aveva utilizzato varie metafore, riferendosi alla situazione del mercato in generale. “La torta è piccola e gli invitati (alla festa) sempre di più”. Infatti, spiegava, “si vendono meno auto in Europa. Allo stesso tempo, nuovi concorrenti dall’Asia stanno spingendo nel mercato”. Di fronte a 2 milioni di unità annue offerte da VW, si ha domanda 1,5 milioni di esemplari. Ecco perché Volkswagen tagliare dieci miliardi di euro di spese entro il 2026, che segue la rottura del patto trentennale con i sindacati: siglato nel 1994, prevedeva il congelamento dei licenziamenti fino al 2029.
Panico da numeri incerti
Nell’ultimo trimestre, è stato in particolare il brand omonimo a preoccupare, con un margine di appena il 2,1%. Per schematizzare, in assenza di numeri certi (il che fa preoccupare ancor più i lavoratori tedeschi della multinazionale), le strade sono due. La prima: chiudere almeno tre fabbriche in Germania, licenziare decine di migliaia di dipendenti (30.000?) e ridurre i restanti stabilimenti. La seconda: tagliare lo stipendio del 10%, per salvare i posti di lavoro e rimanere competitivi.
Autore: Mr. Limone