È l’anno 1973 quando la proprietà e la gestione del marchio automobilistico Lamborghini passano integralmente dalle mani del suo vulcanico fondatore Ferruccio Lamborghini, a quelle degli svizzeri Georges-Henri Rossetti e René Leimer, imprenditori, ma privi di esperienza in campo automobilistico. La ragione di una decisione così inattesa è da ricercare nella necessità di salvare la fabbrica di trattori in difficoltà, da sempre uno dei gioielli di famiglia più amati da Ferruccio.
La situazione economica che acquisirono i due imprenditori non era delle migliori, aggravata ulteriormente dall’improvviso momento di crisi che colpì il settore delle auto sportive, determinato prima dallo scoppio della Guerra del Kippur in quel 1973 (con conseguente crisi petrolifera mondiale), e poi dal sempre più pesante clima politico e sociale che imperversava in Italia con gli “anni di piombo” e le lotte sindacali.
Per cercare di risolvere o almeno alleggerire la critica situazione patrimoniale e finanziaria, Leimar decise di cercare nuovi contratti, con l’obiettivo di rimpinguare le casse diversificando e ampliando la produzione Lamborghini. Fortunatamente nonostante le difficoltà, il marchio riscuoteva ancora grande stima nel settore (e non solo) portando i primi due risultati: la tedesca BMW decise di stringere con Lamborghini un accordo che prevedeva lo sviluppo del progetto E-26, ovvero la BMW M1 disegnata da Giorgetto Giugiaro, e la successiva produzione nello stabilimento di Sant’Agata Bolognese, mentre con la statunitense MTI (Mobility Technology International) ci si accordò per la realizzazione di un fuoristrada destinato al mercato militare, e sviluppato secondo le specifiche statunitensi HMMWV (High Mobility Multipurpose Wheeled Vehicle) letteralmente “veicolo multifunzione su ruote ad alta mobilità”. A tale “bando” parteciparono anche altri costruttori dando forma ad una agguerrita concorrenza con l’obiettivo di accaparrarsi la commessa del governo statunitense.
Una genesi ingarbugliata
Ma adesso la situazione inizia ad ingarbugliarsi, per questo occorre fare un passo indietro. Sul finire degli anni Sessanta, l’Ordinance Division della FMC (Food Machinery Corporation) a San José (California), ovvero un marchio che dal 1941 produceva veicoli militari, decise di sviluppare un mezzo militare ispirato alle “dune buggies” subodorando l’imminente decisione da parte dell’US Army di sostituire la Ford M151 MUTT (cosa che come visto successe).
L’azienda definì il proprio progetto High Mobility Wheeled Vehicle (HMWV) mostrando nel 1970 il primo di due prototipi costruiti all’esercito che accettò di valutarlo nominandolo XR311, ordinando successivamente la costruzione di dieci esemplari di pre-serie per svilupparne le potenzialità: il veicolo era caratterizzato da un design molto peculiare rispetto alla tipica morfologia Jeep, presentandosi massiccio ma di altezza ridotta, con telaio e carrozzeria in acciaio, unica fila di tre posti anteriori e motore posteriore V8 a benzina Chrysler da 5,2 litri e 187 CV, collegato ad un convertitore di coppia a tre velocità, capace di circa 130-145 km/h. La valutazione si protrasse fino al 1974 per poi bloccarsi senza ordini.
Nel 1976 alcuni tecnici che avevano preso parte allo sviluppo dell’XR311 costituirono quella MTI di San José, con Rodney Pharis come presidente, rielaborandone il progetto; questo diventò sostanzialmente il progetto sviluppato con Lamborghini dal nome “Cheetah” (“ghepardo” in inglese), da presentare al Salone Internazionale dell’Automobile di Ginevra del 1977.
Dal blocco alla rinascita
Come prevedibile, nacquero controversie legali con FMC sulla proprietà intellettuale del progetto, che nel frattempo lo aveva venduto alla Teledyne CAE, che lo lasciò quasi identico all’XR311, e alla AM General (American Motors) che invece lo ridisegnò battezzandolo Hummer (per tutti l’Humvee), candidandolo anch’esso al bando governativo.
Di fatto in competizione vi furono tre derivati dell’XR311 ovvero l’Hummer dell’AM General, il Cheetah presentato da Lamborghini-MTI e il Teledyne CAE. Come sappiamo solo l’Hummer vinse il bando diventando ufficialmente il proprietario dell’idea mentre Lamborghini per evitare costose noie legali ritirò il progetto.
Il Lamborghini Cheetah non venne selezionato in quanto da subito mostrò alcuni limiti e difetti: fra tutti l’errata distribuzione dei pesi determinata dal grosso motore centrale-posteriore (clamorosamente un V8 Chrysler da 5,9 litri e 183 CV) che lascia l’anteriore troppo leggero e poco incisivo nella guida in fuoristrada, e la scarsa potenza e agilità a fronte delle oltre 2 tonnellate di peso. Il Lamborghini Cheetah veniva di fatto disegnato e costruito in California per poi essere spedito in Italia, dove i tecnici Lamborghini apportavano alcune modifiche utili alla produzione in serie, una dinamica produttiva che portò a complessità e incongruenze progettuali. Ma il mezzo non aveva solo difetti: interessante era l’apertura totale del posteriore (molto in stile Lamborghini) per una migliore manutenzione, i grossi pneumatici run-flat adatti ai terreni sabbiosi e la leggera oltre che inattaccabile carrozzeria in vetroresina, la struttura semplice e completamente aperta ma eventualmente richiudibile per usi diversi. Anche lo stile generale ha degli elementi originali, come i quattro fari gemellati e le sette feritoie su ogni montante posteriore che fungono da prese d’aria per il motore. Oggi è conservato presso il museo aziendale MUDETEC.
Il progetto non rimarrà lettera morta, perché farà da base alla nascita del Lamborghini LM002 del 1986, sfruttandone gli investimenti ormai sostenuti. Stavolta con un V12 anteriore da 420 CV.
Autore: Federico Signorelli