Il motore monocilindrico è nato con la motocicletta. E’ inutile negarlo: chi di noi non ha mai ascoltato il passaggio di un grosso mono, magari con lo scarico un po’ aperto, e non ha desiderato essere su quella sella, da solo, su una strada deserta ad ascoltare il suono baritonale emesso dallo scarico in accelerazione o quello più greve in scalata, prima di entrare in una curva? Questa è la vera essenza della motocicletta. Noi appassionati di moto d’epoca, poi, abbiamo un debole viscerale per i mono. Ma non siamo soli: oggi si assiste a un ritorno dei “single” di grossa cilindrata, la classica 500 c, dopo che questi avevano passato un lungo periodo di oblio in cui su strada furono surclassati prima dai bicilindrici inglesi e poi dai pluricilindrici giapponesi e nel fuoristrada dal più leggero e potente motore a due tempi, che negli anni Sessanta riuscì a esprimere potenza e affidabilità anche su unità di elevata cubatura raffreddati ad aria.
Senza voler fare la storia di questo motore e delle infinite moto sulle quali fu impiegato, ci limiteremo a ripercorrere il cammino di quelli che in tempi più recenti possono essere considerate le antenate della Yamaha XT, per capire il perché gli ingegneri giapponesi pensarono di applicare un motore all’epoca ritenuto obsoleto su una loro moto moderna.
Occorre fare un passo oltreoceano, il mercato di riferimento negli anni Settanta per le Case motociclistiche giapponesi, per osservare come a differenza dell’Europa, dove il motocross era ormai dominato dalle leggere moto col motori a due tempi, più adatte ai nostri tracciati tecnici, il fuoristrada ruotasse soprattutto attorno alle lunghe galoppate che si disputavano sulla superficie piatta ma insidiosa degli aridi deserti ai confini tra il Messico e California. Erano gare lunghissime e durissime, denominate enduro. Lì vinceva chi aveva più coraggio nel tenere la manetta aperta per ore e guidava una moto robusta, affidabile e veloce. All’epoca le inglesi BSA e Triumph si difendevano ancora bene, rappresentando la scuola quattrotempistica europea, ma l’arrivo della svedese Husqvarna con la sua 400 cc due tempi impose nuovi riferimenti a tutti i concorrenti.
La Yamaha, fortissima per tradizione nel due tempi di piccola cilindrata, vendeva negli USA migliaia di scrambler DT-1 di 250 cc, ma all’inizio degli anni Settanta preferì seguire una strada diversa, creando un monocilindrico quattro tempi con distribuzione monoalbero e cambio in blocco a cinque rapporti alloggiato in un telaio monoculla in tubi d’acciaio. Una reinterpretazione in chiave moderna della BSA Victor, campione del mondo di motocross nel 1964 e 1965 con Jeff Smith, e della nostra Ducati Scrambler che ebbe un certo successo negli States, anche nella versione R/T, quella un po’ più votata al fuoristrada impegnativo rispetto alla standard. Una scelta ponderata, come del resto tutte quelle fatte dai giapponesi, e senza dubbio frutto di una approfondita analisi dei gusti motociclistici di quel tipo di clientela.
La nuova entrofuoristrada della Yamaha debuttò al Salone di Tokio del 1975 e fu commercializzata in Europa e negli USA l’anno dopo con la sigla XT500C. La X significava, nel codice Yamaha, il motore a quattro tempi e la T stava per Trail (sentiero) ovvero una moto adatta per un uso leggero in fuoristrada ma anche alla strada. Della XT ne esisteva una versione senza impianto di illuminazione e con alcune modifiche di dettaglio a motore, telaio, sospensioni e mozzi, denominata TT500 e destinata alle già menzionate gare di enduro americane. Una moto piuttosto rara in Europa e ancor più in Italia.
Il motore della XT aveva la distribuzione monoalbero in testa comandata a catena e due valvole, dimensioni caratteristiche ‘corte’ (87 x 84 mm) e una cilindrata di 499,1 cc. Compresso 9:1, erogava una trentina di cavalli ed era alimentato da un carburatore Mikuni VM34SS di diametro 34 mm. Curioso l’utilizzo dell’impianto elettrico a 6V e dell’accensione a puntine, tipici delle semplici fuoristrada più semplici cui l’XT, nonostante la completa dotazione stradale, inclusi i doppi strumenti, le frecce e un efficiente impianto di illuminazione, voleva ispirarsi. E la semplicità del progetto era enfatizzata dall’assenza dell’avviamento elettrico, ovvero uno dei segni distintivi delle moto giapponesi che ebbe il grande merito di avvicinare alle due ruote un pubblico molto vasto. L’XT aveva l’avviamento a pedale, con una lunga leva posta sul lato destro del motore.
Nonostante fosse stato possibile prevedere un motorino di avviamento, l’aggravio di peso della batteria maggiorata e del motorino stesso fece propendere per la soluzione più semplice. Di certo l’avviamento elettrico, arrivato sul motore di 600 cm3 della Tenerè, rese queste moto decisamente più popolari… Ma tant’è. L’avviamento della XT500 non era teoricamente difficile. C’era l’alzavalvola comandato da una levetta al manubrio e una finestrella per vedere quando il pistone era al PMS. Ma era richiesta una certa dimestichezza e il motore perfettamente a punto. E poi c’era un problema, ben noto anche agli epocali odierni: l’avviamento ‘a tiepido’. Se il motore si spegne pochi minuti dopo che è stato avviata a freddo… spesso ci si deve rassegnare ad aspettare. Inutile intestardirsi.
Tornando alla storia della nostra Yamaha, la scelta del quattro tempi non fu fatta solo seguendo le ali della nostalgia, ma fu piuttosto mirata a proporre negli USA, che in alcuni Stati come la California maturava già un’attiva coscienza ecologica, un mezzo in grado di adeguarsi alle prime norme anti inquinamento, decisamente impegnative per i due tempi dell’epoca. Più facile il controllo della combustione di un quattro tempi, ancora meglio se con un solo pistone, mentre per la rumorosità si dovettero adottare un’efficiente scatola filtro e una efficientissima coppia di silenziatori, il primo posto nella zona centrale del telaio, vicino all’ammortizzatore, e il secondo collegato al primo, con l’uscita all’altezza del portatarga. Un peccato perché la “voce” del motore XT è davvero entusiasmante, ma bisogna riconoscere ai giapponesi di aver dato in questo modo un importante contributo alla trasformazione anche dell’impatto ecologico del motociclismo.
A conferma della semplicità e della compattezza che si volle dare a questo mezzo, il motore aveva la lubrificazione a carter secco, per ridurne al minimo le sue dimensioni in altezza. Per questo esso fu inserito in un semplice e robusto telaio monoculla sdoppiata, chiuso da un trave superiore di grande diametro nel quale erano contenuti i poco più di due litri di olio motore. Il tappo di rifornimento e di controllo del livello era posto nel punto più alto del trave, in prossimità del cannotto di sterzo. Una soluzione originale ma non nuova: si era vista sulla già menzionata BSA Victor 441 della metà degli anni Sessanta e sulle successive versioni di 500 cc di inizio anni ’70. La ciclistica era completata da una forcella telescopica di buone prestazioni e una coppia di ammortizzatori posteriori montati fortemente inclinati e rovesciati, ovvero con la ghiera di regolazione del precarico molla posta superiormente.
Il peso della macchina, in ordine di marcia, sfiorava i 150 chili. Non proprio pochi per praticare del fuoristrada impegnativo, specie se paragonati ai poco più di 100 chili delle due tempi, ma non proibitivo se i percorsi non erano le nostre mulattiere bergamasche… E poi su strada la XT era una vera goduria. Nonostante questo, anche in Europa e specialmente in Francia, la XT raccolse ampi consensi, impersonando il sogno di chi voleva praticare il fuoristrada con spirito turistico e avventuroso e necessitava quindi di un mezzo semplice, robusto e affidabile, doti queste che non mancano certo alla monocilindrica giapponese.
La semplicità e la robustezza meccanica fecero della XT il mezzo ideale per chi aveva spirito avventuriero su due ruote. E il suo arrivo coincise proprio con la crescente popolarità delle prime maratone africane, ancora riservate a un ristretto numero di appassionati e distanti anni luce dall’enorme eco mediatico che le sarebbe piovuto addosso qualche anno dopo. Sfogliando le pagine del bellissimo libro “1er Rallye Paris-Dakar – Les Portes Du Reve”
si entra nell’atmosfera che dominava quella che non era ancora considerata puramente una gara ma piuttosto una sfida tra piloti, mezzi meccanici e natura.
C’era una classifica, ovviamente, ma la vittoria era di ognuno che riusciva a raggiungere la spiaggia di Dakar sano e salvo… Ben lontani dalla specializzazione tecnica delle edizioni successive, nel dicembre 1978, due giorni prima di Natale, le moto allineate sul piazzale del Trocadero ai piedi della Torre Eiffel sono per la maggior parte Yamaha XT 500 e Honda XL 250S cui, pur dotata di un più sofisticato motore quattro valvole e di una ciclistica più agile e leggera, mancavano quei 250 cc per essere “la” moto africana, palma che senza dubbio quell’anno andò alla XT500 e alle successive versioni di 550 e 600 cc, che assunse poi il nome Teneré…
Nella prima edizione della “Paris-Dakar” partirono 182 concorrenti e ne giunsero al traguardo 74, di cui 34 motociclisti. Tra loro 14 guidavano una XT500, altrettanti avevano la Honda XLS 250. La cosa più importante, però, fu la vittoria assoluta della Yamaha di Cyril Neveu, che sarebbe poi divenuto uno dei piloti “africani” più leggendari, seguito dall’altra XT di Gilles Comte e dalla Honda (prima nella classe 250, ovviamente) di Philippe Vassard. Un prova di forza delle due ruote: la prima vettura, una Range Rover fu quarta e al quinto posto, a dimostrazione dello spirito avventuroso che dominava quella corsa, una Renault 4!
Nel 1978, fu presentata la seconda versione della off-road giapponese, siglata XT500D. Le modifiche rispetto al primo tipo sono marginali, a conferma di una moto sostanzialmente riuscita. La più importante e visibile è il diverso andamento del sistema di scarico: sul primo modello il tubo di scarico passava basso ed era piuttosto esposto agli urti nella marcia fuoristrada, e lo stesso valeva per il primo silenziatore.
Il nuovo scarico era decisamente più fuoristradistico, anche se manteneva il doppio elemento. Il tubo passava alto, sopra il carter, finiva in una prima scatola di forma triangolare e da questa finiva nel terminale, sostanzialmente uguale al precedente. Le altre differenze sono ben visibili nelle fotografie. Questa versione è quella che per prima fu importata in Italia in un certo numero di esemplari, ed è quella più facilmente reperibile. La prima è invece piuttosto rara ed è certamente quella di maggior interesse collezionistico.
Sulla base della XT500D fu sviluppato il prezioso esemplare fotografato, iscritto dal team francese Moto Verte alla prima ‘Paris-Dakar’ e che il pilota Pierre Berty portò al traguardo in trentatreesima posizione assoluta, la diciannovesima tra le moto. Essa appartiene oggi ad un appassionato collezionista, cultore di queste moto, e delle Yamaha in generale, delle quale conosce tutta la storia, dalle origini ai giorni nostri.
Come si può rilevare dalle foto, la moto, come d’altronde anche quelle iscritte dalle squadre più organizzate, non aveva nulla di speciale. Il team francese Sonauto, quello dell’importatore francese Jean-Claude Olivier, lui stesso pilota alla prima Dakar, era certamente il più organizzato ed evoluto, con un Range Rover in appoggio guidato da Hubert Rigal. Le sue moto avevano un diverso forcellone, due ammortizzatori DeCarbon e una buona messa a punto della forcella. Tutto qui. E la moto vincitrice, quella del team FD Moto Shop guidata da Cyril Neveu era praticamente di serie, proprio come quella che illustra il nostro servizio. Altri tempi …
Oggi con i mezzi meccanici così evoluti e i nuovi sistemi di navigazione si affronta un viaggio in Africa in modo più cosciente. Il fattore umano è sempre importante, ma trent’anni fa, lasciatecelo dire, partire da Parigi e andare in Africa per 10.0000 chilometri con una monocilindrica era roba da veri avventurieri. Per questo molti veterani delle prime “Dakar” sono ora eccellenti guide per motociclisti ‘normali’.
Ma la Paris-Dakar non fu la prima esperienza africana. Nei due anni precedenti si era infatti disputato il rally Abidjan-Nizza organizzato da Jean-Claude Bertrand, un uomo di grande personalità e carisma che fin dalla fine degli anni Sessanta si era appassionato a questo genere di sfide estreme. Fu lui che nel 1976 organizzò la prima edizione del rally-raid Côte d’Ivoire – Côte d’Azur che idealmente collegava la Costa d’Avorio con la Costa Azzurra. Denominato più semplicemente Abidjan-Nice, questo rally annoverava al via della seconda edizione Terry Sabine, un motociclista che con la sua Honda XL rischierà la vita nel deserto del Ténéré (luogo che diventerà poi il più famoso terreno di confronto tra i concorrenti della Paris-Dakar), ma che si appassionò a tal punto da voler organizzare qualcosa di ancora più eccitante e avventuroso della Coté-Coté: il Rally Oasis Paris-Dakar, per l’appunto di cui divenne il padrone per molti anni.
Un piccolo aneddoto, a chiusura di queste note.
E’ vero che la tecnologia ci ha donato grandi sofisticazioni meccaniche, accensioni elettroniche, e quant’altro possa aumentare l’affidabilità (presunta) delle nostre moto, ma è altrettanto vero che ancora oggi sulle piste africane circolano tante XT500, semplici, robuste e a loro modo affidabili. Soprattutto impersonano un motociclismo in cui l’uomo conosceva perfettamente la sua macchina ed era in grado di intervenire per risolvere qualunque problema e riuscire ad arrivare comunque a destinazione. Con la vecchia XT era ed è così…
Ringraziamo per la disponibilità, le informazioni e soprattutto le moto da farci fotografare il Motoclub XT500 (www.xt500.it – info@xt500.it) dedicato agli appassionati cultori della Yamaha XT.
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