Come nella Formula 1, anche nel motociclismo sportive si sono succeduti vari “periodi”. E’ così lo è stato con la Ferrari di Schumacher, la McLaren di Senna e ancor prima con la Lotus di Colin Chapman; tra questi quello forse più lungo è stato il periodo tecnico segnato dall’interminabile serie di vittorie del motore Ford DFV a 8 cilindri. In questo ambito, il mondo delle due ruote ha avuto numerosi esempi in cui il successo di una Casa è stato legato a filo diretto con una precisa scelta tecnica. La MV Agusta con il quattro cilindri in linea, la Honda con i suoi motori frazionati con distribuzione plurivalvola e le ardite scelte tecniche, la Ducati con il Desmo, Suzuki e Yamaha col motore a due tempi. Quest’ultima, dopo aver dominato dal 1965 al 1968 con le bicilindriche e le quadricilindriche ufficiali condotte da Read e Ivy, ha continuato a percorrere la stessa strada tecnica per fornire anche ai piloti privati un mezzo competitivo in grado di primeggiare ai massimi livelli.
All’inizio degli anni ’70, parallelamente alla produzione delle bicilindriche di 250 e 350 cc, la Casa dei tre diapason intraprese lo sviluppo di una macchina di grossa cilindrata che potesse portarla alla conquista del suo primo titolo mondiale della classe 500 e a competere nella neonata (e all’epoca non ancora assurta a mondiale) classe 750. L’idea fu quella di affiancare due gruppi termici bicilindrici (per creare una 500 cc e una 700 cc) su un basamento comune. Un progetto che portò I primi risultati nel 1973, quando Saarinen e Kanaya con le nuove OW19 misero in crisi le MV Agusta 500 di Agostini e Read. L’enorme potenziale di questi motori era celato sotto una disarmante semplicità meccanica, le cui prestazioni avevano del miracoloso: ma non era così.
Dietro quei quattro cilindri senza valvole c’era tutta la tecnologia che i giapponesi erano in grado di mettere in campo in termini di progettazione, materiali, lavorazioni meccaniche e organizzazione. Fattori ben evidenti anche nelle prime moto di serie, che in quel periodo iniziavano a saturare i mercati occidentali. Nessuna sorpresa quindi se quella “ricetta” avrebbe segnato uno di quei “periodi” tecnici cui abbiamo accennato in apertura. Il nuovo motore era caratterizzato da un carter in lega leggera tagliato secondo un piano orizzontale in cui erano montati due alberi motori indipendenti accoppiati da un manicotto centrale e il blocco dei cilindri raffreddato ad acqua con sette luci (di cui Quattro di travaso più una “unghiata” sopra la luce di aspirazione).
Le misure caratteristiche “quadre” (54 x 54 mm) e l’ammissione regolata da carburatori Mikuni da 34 mm confermavano la diretta derivazione dal bicilindrico di un quarto di litro. Importante innovazione, l’adozione delle valvole a lamelle sull’aspirazione, un travaso d’esperienza dai motori da cross (notoriamente bisognosi di buon tiro a basso regime) e soluzione tecnica sapientemente utilizzata dalla Yamaha per accomunare le sue bicilindriche stradali (all’epoca il suo indiscutibile cavallo di battaglia) con i bolidi da corsa. Nonostante questo, il campo di utilizzo di questi motori non era comunque superiore ai 2000 giri. La prima Yamaha a conquistare il mondiale delle mezzo litro fu la OW26 e questo fu un momento storico: quell’anno, il 1975, segnava la fine del “periodo” del Quattro tempi anche nella classe regina. Un dominio che sarebbe tornato 27 anni dopo e soltanto grazie a un regolamento particolarmente “generoso”.
Dal 1976, fuori la MV, apparve sulla scena un altro temibile concorrente per la Yamaha: la Suzuki RG500. Si trattava sempre di una quattro cilindri a due tempi ma con un’architettura diversa da quella della Yamaha e soprattutto caratterizzato dall’ammissione a disco rotante. Con alla guida un talento come Barry Sheene, il mondiale passò di mano, a favore della quattro cilindri di Hamamatsu. Stessa musica nel 1977, con la Yamaha che cercò un rilancio con la OW35, caratterizzata da un motore a corsa corta (56 x 50,4 mm), per creare maggiore potenza (denunciata in 110 CV) con le grandi aree delle luci di aspirazione e travaso. Piloti Yamaha quell’anno furono Steve Baker, Johnny Cecotto e il nostro Agostini, che subirono ancora la supremazia di Sheene.
Come per la Suzuki, le cui indubbie potenzialità furono esaltate da un Sheene in particolare stato di grazia e in perfetta sintonia con la moto, anche per la Yamaha l’arrivo del californiano Kenny Roberts ha segnato una svolta.
Nel 1978, la OW35 e “King” Kenny si espressero al meglio raggiungendo il titolo ai danni di Sheene, ripetendosi nel 1979 con la OW45, antenata della moto che illustra il nostro servizio. Quell’anno il migliore avversario per Roberts fu l’italiano Virginio Ferrari (Suzuki Nava Olio FIAT), in lizza per il campionato fino all’ultima prova (dove dovette ritirarsi per caduta) e che giunse secondo nella classifica finale.
In quella che fu la migliore stagione nei GP del pilota milanese, merita di essere ricordato il capolavoro nel GP d’Olanda dove fu protagonista di un lungo duello con Sheene, che tenne col fiato sospeso tutti gli appassionati (compreso il sottoscritto) in una memorabile diretta televisiva e che si risolse in volata con l’italiano autore del giro più veloce a 159,22 km/h di media.
Questo periodo vittorioso non fece comunque dimenticare le potenzialità della Suzuki, sempre vicinissima, specialmente verso la fine della stagione, quando le due moto parevano pressoché equivalenti. A livello tecnico, l’evoluzione fu continua: nel motore OW35, in particolare, alle già menzionate lamelle all’aspirazione, fu affiancata l’importantissima adozione della valvola rotativa parzializzatrice allo scarico, denominata YPVS (Yamaha Power Valve System). Come noto, se per i motori a quattro tempi la forma delle camme (e quindi le durate – espresse in gradi di rotazione dell’albero motore – delle fasi) è fondamentale per definirne il carattere, nel due tempi questo è delegato all’ampiezza delle luci di aspirazione, travaso e scarico, ricavate nel cilindro. Tra queste, quella di gran lunga maggiormente responsabile delle differenze di prestazioni tra un motore turistico e uno da corsa, è quella di scarico; in particolare la sua dimensione in altezza quando si utilizzano scarichi “accordati”. Il sistema introdotto dalla Yamaha aveva proprio il compito di variare l’altezza della luce di scarico, creando un compromesso del suo valore adatto al miglior rendimento su un più vasto spettro di regimi.
La strada che in Giappone si pensò di percorrere per migliorare ulteriormente l’affinamento della sua quadricilindrica per la stagione 1980 passò attraverso l’affinamento della ciclistica, partendo innanzitutto da un alleggerimento generale.
La nuova moto, siglata OW48, ebbe dunque ben presto il telaio in tubi tondi di acciaio sostituito da uno in tubi quadri di lega leggera, con una geometria pressoché identica alla precedente versione tranne che per una leggera ridistribuzione dei pesi, suggerita da Roberts.
Nel motore una modifica tecnica fu l’adozione della valvola YPVS a ghigliottina, più efficiente di quella rotativa adottata sul motore della OW45.
A partire dal GP d’Olanda, dal Giappone arrivò un nuovo motore caratterizzato dai cilindri esterni rovesciati, ovvero con lo scarico rivolto indietro e i carburatori posti in avanti. Una scelta che si spiega con la cronica difficoltà, per un pluricilindrico, di posizionamento delle voluminose camere d’espansione, “inventate” alla fine degli anni ’50 dai tecnici tedeschi della MZ. Questi utilizzavano l’ammissione a disco rotante con cui potevano usare gli scarichi posteriori con le pipe pressoché rettilinee (e quindi assai più assimilabili alla teoria). In questo contesto la distribuzione a disco rotante da maggior libertà ai progettisti di disporre al meglio le luci di scarico sui cilindri, essendo questa le uniche applicate. Nel sistema di aspirazione tradizionale, la presenza del carburatore complica notevolmente le cose. In questo contesto vale la pena di fare un’altra interessante considerazione tecnica: nel motore a due tempi ha anche una notevole importanza il senso di rotazione dell’albero motore; è infatti importante considerare la relazione che intercorre tra la posizione della luce di scarico e il senso di rotazione dell’albero motore.
Durante la fase utile del ciclo, quando il pistone scende verso il PMI, a causa della posizione obliqua della biella, il pistone è spinto sulla parete del cilindro; è ovvio che questa spinta è meglio si applichi sulla parete opposta ai travasi, per evitare che attraverso l’inevitabile gioco tra canna e pistone, una parte dei gas pompati dal carter possano uscire dallo scarico (aiutati anche dalla depressione creata dalle risonanze nella camera di espansione). Una considerazione che fa il paio con quella che vorrebbe tale “appoggio” sul lato del pistone dove non vi è la sfinestratura inferiore che regola la durata dell’aspirazione, per avere minori sollecitazioni sul pistone. Quest’ultima considerazione aveva portato all’inversione del senso di rotazione del motore della OW35, da orario ad antiorario.
Ruotando in senso orario, infatti, nella fase di espansione la spinta si esercita proprio sul lato aspirazione. Nella OW48R l’esigenza di avere le espansioni rettilinee ha evidentemente avuto il sopravvento sull’altra considerazione in una classica situazione di compromesso tecnico.
Risultato della diversa geometria dello scarico fu l’adozione di carburatori diversi (36 mm per i cilindri esterni e 34 mm per quelli interni) ed il guadagno di una manciata di cavalli di potenza massima. Nella OW48 la camera d’espansione del cilindro n.1 (quello all’estrema sinistra) passava dietro i carburatori per uscire sul lato destro, nella zona della gamba del pilota: con la disposizione dell’OW48R si evitò anche il grande accumulo di calore nella zona sottosella, che influiva negativamente nel rendimento dell’idraulica del monoammortizzatore. Inizialmente il motore “R” non fu alloggiato nel telaio in alluminio e fu quindi provato su quello in tubi di acciaio. Verificate le buone prestazioni, il telaio in lega leggera, modificato per ospitarlo, fu disponibile dal GP d’Inghilterra (anche se in quella occasione Kenny le preferì la versione normale).
Durante quella stagione, Roberts alternò la OW48 e la OW48R, alla ricerca del miglior compromesso su ogni circuito, per opporsi al meglio ai suoi principali avversari chiamati Marco Lucchinelli e Randy Mamola con le onnipresenti Suzuki RG. Con l’eccellente risultato di ottenere il terzo titolo mondiale consecutivo, un’impresa condivisa con Mike Hailwood, Geoff Duke, John Surtees e Giacomo Agostini, e che lo proiettò tra i più grandi di tutti i tempi.
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