Diario della Winter Marathon 2013 a bordo della nuova Porsche Boxster S, seconda e ultima parte!
Sera. Un’arrampicata indimenticabile
È buio ormai e la temperatura è ampiamente sotto lo zero, smetto di fare l’eroe e chiudo il tetto. Si punta verso il Lago di Carezza e poi Canazei, arrampicandosi per strade sempre più strette, ripide, scoscese, sporche, innevate, ghiacciate, fino ai 2.239 metri del Pordoi. Percorro parte della salita alle spalle della sconosciuta Alvis del 1952, che non sta tenendo la media dei 41 km/h di cui al regolamento. Anzi, a ben vedere, ci sta dando come un fabbro. Probabilmente l’equipaggio sa di essere già fuori gara, quindi punta a divertirsi. Il pilota ha indosso una giacca di pelle e manovra il timone che dovrebbe fare da volante con un’agilità notevole, il motore sputa fiamme di carburante incombusto mentre il suo rombo riempie la valle. Sorpassa le auto che si trova davanti una a una, senza apparente sforzo, mentre io snocciolo i 7 rapporti del doppia frizione PDK in modalità Sport Plus. Non devo disturbare i concorrenti, quindi non mi faccio troppo sotto, ma seguo questo siluro rosso fuoco coi controlli elettronici disattivati, rispondendo ai suoi traversi con altri traversi, alle sue accelerate con altre accelerate, al suo gorgoglìo cupo con il grido lacerante della Boxster a 6 cilindri contrapposti. Il ritmo sostenuto dell’arrampicata mi permette di apprezzare l’equilibrio totale del telaio di questa Boxster S e scacciare quasi del tutto le mie perplessità relative allo sterzo assistito elettricamente. Se a velocità contenute il comando ha un feeling vagamente artificiale, quando il gioco si fa serio e la velocità aumenta riesce a restituire un’idea precisa di quello che succede là davanti. Infonde fiducia. Ed è quello di cui ho bisogno, con una trazione posteriore da gestire senz’altro paracadute al di fuori dell’ABS. Per una mezz’ora che non dimenticherò mai, mani e piedi sono occupati a far ballare la spider di Zuffenhausen sulla neve e sul ghiaccio, mentre i miei occhi ammirano le evoluzioni di un’auto vecchia 60 anni e del suo intrepido pilota.
Notte. Passo dopo passo, verso l’arrivo
La gara prosegue nella notte, si susseguono il Falzarego, Cortina, il Valparola, Ortisei, il Pinei, il Passo della Mendola e via di nuovo verso Madonna di Campiglio. Raccontare tutte le emozioni che mi regalano il paesaggio, la luna piena che illumina a giorno le Dolomiti, la strada e la sportiva di razza che guido sarebbe impossibile. La stanchezza comincia a farsi sentire e le voci si rincorrono, pare che in testa ci sia una Mini. Ma quale? Sono più di una. E poi mai escludere le rotture dell’ultimo momento, i ritiri sono sempre da considerare in una gara tra “nonne”.
I concorrenti cominciano ad arrivare a Madonna di Campiglio verso le tre meno qualche minuto. Stanchi, sporchi, sconvolti ma felici, sorridenti, divertiti. Suonano il clacson e salutano il gruppo di spettatori rimasti al gelo per vederli arrivare. Le auto scorrono per oltre un’ora e mezza, fino quasi all’alba, poi tutti in albergo per una doccia calda e il meritato riposo.
Il giorno dopo. Il lago ghiacciato, la premiazione e i ricordi
L’appuntamento è per il sabato pomeriggio, tutti sul lago ghiacciato nel centro di Madonna di Campiglio a vedere i primi 32 classificati confrontarsi in una sfida a eliminazione diretta che offre tanto spettacolo. La sera invece c’è la premiazione al PalaCampiglio, che decreta la classifica finale: terzi Canè – Galliani su Lancia Aprilia del 1938, secondi Aliverti – Maffi su Lancia Aprilia del 1940, primi Margiotta – Perno su Mini Morris Cooper del 1965. Tutti applaudono i sei sul palco con le coppe, come si dovrebbe sempre nello sport, come si fa in una grande famiglia. Foto di rito, sorrisi, prosciutti, premi e quant’altro, con l’augurio di ritrovarsi alla prossima edizione.
La cena di gala è un’occasione per conoscere qualcuno dei protagonisti di questa strana gara. Mi raccontano della passione, ereditata come l’automobile dal padre o dal nonno. Mi raccontano di quanto temevano di non farcela più, perché i freni a tamburo in discesa erano andati e i rapporti del cambio cominciavano a non entrare. Mi raccontano del freddo nell’abitacolo, dei fari alogeni che non illuminavano niente in mezzo ai boschi di montagna, di quando uno dei cronometri ha smesso di funzionare e loro hanno dovuto regolarsi contando ad alta voce fino alla prova successiva. Sembrano scanzonati, ma dietro queste gare ci sono una costanza e un’intesa tra i due membri dell’equipaggio che sono totali. C’è passione e divertimento, ma c’è anche tanta professionalità.
Si torna a casa. Con una tentazione che è quasi una certezza
La Winter Marathon è stata una boccata di aria fresca in una situazione sempre più soffocante per l’automobile, una splendida immersione in un mondo e in un modo di vivere i motori che pare essersi perduto. Paesaggi mozzafiato hanno fatto da sfondo ad automobili d’altri tempi, non relegate a soprammobili da esposizione, ma sporche, rumorose, vive. Impegnate in ciò per cui sono state pensate, e cioè correre, divertire, emozionare. Questa gara ha il gusto dell’avventura, del rischio, della sfida con gli altri ma prima ancora con se stessi. La Winter Marathon sa di neve, di benzina e di olio bruciato, ma sa soprattutto di passione.
Mentre carico i bagagli sulla Porsche Boxster S per tornare a casa penso che, con i soldi che risparmio avendo smesso di fumare, il prossimo anno dovrei potermi permettere l’iscrizione. Perché no. Altrimenti, visto che la gara si svolge su strade aperte al traffico, seguirò i concorrenti con la mia stessa auto. Insomma, sia quel che sia, alla prossima edizione!
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