Trump è tornato. Anzi no. Anzi sì, ma solo un po’. Della serie: volevamo i dazi universali e invece ci ritroviamo con la versione light, tipo Coca Zero ma con più gas e meno sostanza.
Il “Liberation Day” annunciato per il 2 aprile rischia di liberare solo dalle certezze. Doveva essere il giorno del trionfo del protezionismo a stelle e strisce, e invece rischia di finire come l’ennesimo trailer di un film che non uscirà mai, diretto da un produttore con l’attenzione di un criceto ipercinetico.
Prima i dazi a tutto campo, poi solo a quei 15 Paesi colpevoli di “sporcare” la bilancia commerciale americana. Chiamali “The Dirty Fifteen”, così fa pure Hollywood. E nel frattempo l’Europa guarda, prende appunti e si prepara all’ennesima puntata del reality-show geopolitico del tycoon più instabile dopo il prezzo del petrolio.
Le auto? Forse si salvano. O forse no. Dipende da come si sveglia. Intanto Hyundai investe miliardi, non si sa se per produrre macchine o per fabbricare pazienza. Già, perché i coreani hanno capito che con Trump non si negozia: si investe. Hanno messo sul piatto 21 miliardi di dollari fino al 2028 per fabbriche, acciaierie, robot e perfino piccoli reattori nucleari. Nove miliardi solo per aumentare la produzione americana di auto. Tradotto: se vuoi evitare i dazi, devi produrre in casa sua. Altrimenti ti trovi sul suo elenco dei “Dirty Fifteen”, con più polvere che prospettive.
Trump usa i dazi come chi minaccia un divorzio solo per farsi rifare la cucina: non vuole perdere la moglie (il mercato), ma nemmeno rinunciare al controllo remoto (sui partner).
Insomma, più che protezionismo è teatro. Ma la platea mondiale è stanca. E quando cala il sipario, resta solo una certezza: a forza di minacce, il mondo continua a produrre. Ma non più certezze. Solo sospetti.
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