È un’avventura infinita quella di Citroen 2CV: chiamatela Deuche, Lumaca di Latta, TPV, ma la storia rimane quella di un’icona storica indelebile.
Trattare dall’inizio la storia e la genesi di tutti i personaggi, è un’impresa ardua. Per tracciare i tratti salienti di uno storico percorso, quello della Citroen 2CV, ritorniamo al periodo del primo dopoguerra (post Prima Grande Guerra). “Père Boule”, come veniva chiamato Pierre-Jules Boulanger, al termine del conflitto anziché tornare negli Stati Uniti restò in Francia, con un ruolo dirigenziale alla Michelin; dove rimase fino a quando fu incaricato di raddrizzare i bilanci del Double Chevron, portando avanti il lancio della Traction Avant e rivedendo la gestione finanziaria delle fabbriche Citroen.
Un giorno del 1936 arrivò una cartella per posta da Clermont-Ferrand. Il faldone indirizzato a Boulanger conteneva i risultati di un’indagine di mercato commissionata dai Michelin e dallo stesso Boulanger: “qual era l’auto che il pubblico francese desiderava di più? Quanti cilindri? Quante portiere? Quante ruote?”
La prima domanda dell’indagine condotta in tutta la Francia, aree urbane e rurali incluse, era “possiedi già un’automobile?”. La maggior parte delle risposte fu ovviamente “no”, che proveniva prevalentemente dalla Francia contadina. Persone certamente non agiate che avevano necessità di un’auto economica nell’acquisto e nella gestione. Una lettera di Boulanger indirizzata a Brogly, al tempo a capo del centro studi Citroen, dettava: «Fate studiare nel vostro reparto una vettura che possa trasportare due contadini con gli zoccoli, cinquanta chili di patate o un barilotto di vino ad una velocità massima di sessanta chilometri orari con un consumo di tre litri per cento chilometri».
In questa descrizione c’è già tutta la Citroen 2CV, ma Boulanger precisò che l’auto doveva essere in grado di percorrere le strade più difficili con un paniere di uova a bordo senza che se ne rompesse uno, che doveva costare al massimo un terzo della Traction 11 (il modello più venduto), che doveva essere guidata in sicurezza anche da una contadina neopatentata. L’estetica? … Di certo non aveva molta importanza.
Brogly, perplesso affermò “questi sono pazzi: è un capitolato impossibile”. Lefebvre, invece, accettò la sfida e scrisse le tre lettere che avrebbero definito il nome della nuova vettura da lì al momento del lancio: T. P. V., ossia Toute Petite Voiture, auto molto piccola.
La gestazione della 2CV, complice la seconda guerra mondiale, durò più o meno dodici anni. Nel 1939 erano già pronti circa 250 prototipi che furono passati in rassegna da Boulanger, che si presentò alla pista prove Citroen con una grande busta di carta. Dalla busta estrasse un cappello in paglia, di quelli usati dai contadini. L’idea di Boulanger era semplice: il contadino (vero target della T.P.V., all’epoca) non si separa mai dal suo cappello, se non può entrare e scendere dalla vettura col cappello in testa, l’auto non va bene.
Fu così che ogni volta che il cappello cadeva (o peggio, Boulanger batteva la testa) quel prototipo della T.P.V. se ne andava dritto in demolizione. Ne rimasero ufficialmente una quindicina che, però, furono distrutti affinché non cadessero nelle mani delle truppe tedesche che avanzavano verso Parigi. In realtà almeno tre prototipi sfuggirono alla demolizione e furono ritrovati negli anni ‘90 in un sottotetto di un fabbricato all’interno della pista della Ferté Vidame. Oggi si trovano intatti al Conservatoire Citroen.
Finita la guerra, Boulanger comprese che il panorama era cambiato, ma l’esigenza di una vettura economica e pratica rimaneva un punto saldo. Allora incaricò Flaminio Bertoni di rivedere l’estetica della T.P.V., trasformandola nella 2CV che conosciamo.
Molte delle soluzioni fantasiose escogitate dai progettisti per abbassare il costo della vettura furono ritenute inadatte al pubblico della fine degli anni ’40. Ad esempio sparirono: l’avviamento a manovella o quello a corda; il singolo faro anteriore, ecc. Del prototipo T.P.V. sulla vettura di serie rimase una caratteristica che accomuna tutte le Citroen 2CV costruite dal 1948 al 1990: i curiosi finestrini anteriori, la cui metà inferiore si ribalta verso l’alto. Erano stati pensati così prima della guerra per consentire al conducente di segnalare il cambio di direzione mettendo il braccio fuori dal finestrino.
Passiamo al 6 ottobre del 1948: allo stand Citroen al Salone dell’Automobile di Parigi migliaia di aspiranti automobilisti affollavano i Concessionari del Double Chevron per prenotare una 2CV. Era il successo della Lumaca di Latta, come fu ribattezzata dai francesi. Grigie, con un motore di 375 cc che permetteva di raggiungere i 60 orari consumando quei fatidici tre litri per cento chilometri, le prime 2CV comparvero nel ‘49 lungo le strade di Francia.
Poi le prestazioni della Citroen 2CV crebbero grazie all’adozione di nuovi motori più potenti, sempre a due cilindri contrapposti e raffreddati ad aria: prima un 425 cc, poi 602 cc. Da 12 a 35 cavalli, da 60 a quasi 120 orari.
Nel frattempo, la 2CV era diventata la base di un’intera gamma di modelli che ne riprendevano telaio e architettura della meccanica:
Nel 1960 Citroen aveva stupito il presentando una 2CV con due motori. Una soluzione originale quanto semplice per realizzare un fuoristrada con quattro ruote motrici pur avendo a disposizione solo 18 cavalli. La 2CV 4×4, ufficiosamente battezzata “Sahara”. Con gli anni le vendite iniziarono a diminuire: Citroen pensava di rimpiazzarla con la Dyane, ma la personalità della Deuche (altro soprannome della 2CV) erano così forti che il modello restò in produzione anche quando finì il ciclo della Dyane.
Due furono i fattori che riportarono in alto le vendite della Lumaca di Latta: la crisi petrolifera ed economica del 1974 e l’introduzione, a partire dal 1976, delle serie speciali.
Serge Gevin era un decoratore, arredatore e pittore che lavorava con Bob Delpire, il pubblicitario che rivoluzionò l’immagine di Citroen dalla seconda metà degli anni ‘50. Un giorno presentò un’idea per una livrea speciale per la 2CV, bianca e arancio, a strisce come una sedia a sdraio. Propose di chiamarla “Transat”, ovvero sedia a sdraio. Il nome fu rifiutato ma il progetto accettato: la prima serie speciale prodotta da Citroen lanciata nel 1976 si chiamò SPOT, che stava per SPécial Orange Teneré: Spécial era l’allestimento di partenza previsto dal progetto, Orange Teneré il nome della tinta utilizzata. La SPOT era sviluppata con motore da 435 cc e, solo per la Svizzera da 602 cc.
Nel 1981 arrivò la Charleston (che doveva chiamarsi Tréfle) e che era un omaggio agli “anni folli”, in stile retrò, gialla e nera o bordeaux e nera (poi arrivò anche una sofisticata versione in due toni di grigio). Nel 1983 il lancio di France3 (che in Italia si chiamarono Transat, poi nel 1985 le Dolly, nel 1986 le Cocoricò tricolori e persino una versione dotata di frigobar allestita in collaborazione con una nota ditta di acque minerali: la 2CV Spécial Perrier (1988).
Ma tra tutte quella che ebbe maggior successo fu la Charleston: sostenne a tal punto le vendite della 2CV da prolungarne la vita fino al 1990, quando le nuove normative europee la misero definitivamente fuori gioco.
L’ultima 2CV uscì dalle catene di montaggio della fabbrica portoghese Citroen di Mangualde il 27 luglio 1990. Le cifre ufficiali parlano di 3.868.634 esemplari prodotti, ma se si considerano anche le derivate, il totale supera i cinque milioni di pezzi.
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